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Colette 1 in via Duomo

NEGOZIO COLETTE IN VIA DUOMO, 1994
Con Maria Rosaria Fiocco

Pubbl. su: “Napoli 5 Architetti” Clean 1996; Abitare n. 258 1997; “Designing Entrances for Retail and Restautant Spaces”, ed. Rockport Publishers (USA) 1999; “Resistenze – frammenti di architettura di pietra, terra, luce e aria” Clean 2000.

Testo dalla dispensa n. 30 “L’auriata” 28 / 06 / 2019.
Il nome è derivato dal vecchio proprietario, il signor Coletta che vendeva vestiti di carta per il teatro, nome che Rosario Padolino volle conservare come pseudonimo per scaramanzia partenopea.
Ricordo che quando fu divelto il pavimento nel massetto c’erano modanature di marmo che avrei voluto utilizzare ma prudentemente si preferì evitarlo per non allarmare la “Soprintendenza”, un ente che come la Televisione a Napoli è dotato di vita propria. Siamo in piena città greco-romana e non è stata una sorpresa scoprire la caverna dalla quale è stato estratto il tufo per costruire il palazzo. Il mai sopito istinto all’Indiana mi spingeva a calarmi nell’antro ma Rosaria me lo impedì, invece con le mattonelle del pavimento occultato dai vecchi scaffali – segate in diagonale – abbiamo segnato il percorso d’invito.
Per ribadire la classicità del sito, abbiamo dimensionato il bancone in pietra di Trani con rapporti armonici, la divina proporzione del numero d’oro 1,61818; più esplicito è il capitello ionico costruito come una scultura di Ceroli in tavole di legno, un ironico omaggio in bilico fra Giovanbattista Piranesi e Bob Venturi.
La vetrata che configura una sorta di pronao incorniciato dalla luce, ha le lastre collegate con giunti di acciaio mentre sul tubo ricurvo che funge da controspinte del sopraluce, poggiano le lettere in piatti di acciaio inox avvitati.
Per la protezione cercammo una soluzione che consentisse la vista notturna dell’interno. Telai di vetro blindato posti dietro robuste ante di ferro con cerniere giganti e diagonali hanno tematizzato il tema; sapevamo che il rame impiega anni per assumere il color verde ossidato, un tempo che fu ridotto a zero con un segreto dei fabbri vesuviani Vincenzo e Crescenzo: bagnare i pezzi con piscio di cavallo e fissarli con vernice trasparente. Veri pezzi d’arte…

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