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Casa De Giovanni a Posillipo

CASA DI MAURIZIO DE GIOVANNI A POSILLIPO, 2018
Con Alessandro Della Vecchia e Vincenzo Bruno, elaborazioni grafiche di Mario Avagliano Trezza

Testo su “Identità dell’Architettura Italiana” a cura di Paolo Zermani, Diabasis 2019

In “Complessità e contraddizioni nell’architettura” Bob Venturi, sul contrasto fra fini e mezzi di un programma, ha scritto che se per il progetto d’ingegneria il fine è semplice e senza contraddizioni mentre i mezzi sono assai complessi, viceversa per il progetto anche di una semplice casa, i mezzi sono in genere semplici mentre il fine è complesso e contradditorio perché connesso all’abitare.
Gran parte del costruire contemporaneo – evadendo il monito di Gottfried Semper sul pericolo del progresso tecnico se non si è capaci di dominarlo – ha ribaltato l’assunto di Venturi riducendo la composizione ad oggetto di design che con l’azzeramento della triade vitruviana ha sancito il trionfo della forma-immagine a discapito dell’abitare. Se questa tendenza riguarda soprattutto gli edifici a grande scala, spesso le case evadono la triade – che è una condizione e non uno stile – sovrapponendo aggettivi ai sostantivi. Entrambe le specie disperdono i significati e per questo cerco di rendere preziosa la forma interrando la fabbrica.
Vent’anni fa progettai il tema didattico “Casa sotterranea per Umberto Eco a Posillipo” e sullo stesso luogo ho riproposto lo stesso tema per Maurizio de Giovanni, una casa più per ammirare il paesaggio che allinea il Golfo col Vesuvio che per essere guardata. L’intervento vuol essere un risarcimento alla geografia offesa dalla storia del mal costruire che ha stravolto il sito dove tuttavia ci sono le eccezioni di Villa Crespi realizzata nel 1955 da Davide Pakanowski (che fu allievo di Le Corbusier) e più oltre di Villa Oro costruita fra il 1934-1937 da Luigi Cosenza e Rudolf Rudofsky.
La composizione è articolata dal muro ficcato come una diga nel suolo che dispiega l’unico prospetto dietro il quale si distribuiscono il garage, la cantina, l’alloggio per il maggiordomo, il soggiorno con la libreria-studio a doppia altezza, le camere di Maurizio de Giovanni e per gli ospiti. Due chiostrine portano luce e aria nelle parti interne, mentre il terreno vegetale assicura un’efficace climatizzazione naturale. L’acqua piovana, raccolta in cisterne potrà alimentare la casa e il prato che decreta il valore del vuoto, mentre gli alberi sono posti a monte.
Non amo il cemento, ma la natura del tema che esclude il basamento lo rende il materiale più logico per legare la costruzione alla terra: è una pietra artificiale che conserverà la sua espressione quando la casa diventerà una rovina.

Testo dalla dispensa n 37 CASA PER MAURIZIO DE GIOVANNI, 10 dicembre 2019
«L’architettura è un rifugio nel quale mettere al riparo corpo, cuore e pensiero», Le Corbusier 1937

Cari allievi,
sapete che, oltre costruire edifici, è mia prassi progettare i corsi ricercando temi con finalità formative di composizione, di costruzione e delle ragioni critiche, temi concreti in luoghi reali ma che possano anche far sognare e per il corso del vostro anno accademico ho scelto un tema inattuale come la casa. È inattuale perché la casa individuale ha contribuito all’erosione dell’ambiente per i suoli sottratti alle campagne, per i costi delle reti infrastrutturali e soprattutto per l’imbruttimento del paesaggio dovuto all’ego di architetti e committenti come ha denunciato Adolf Loos (citato nell’ultima dispensa): “Fra le case dei contadini, che non da essi furono fatte, ma da Dio, c’è una villa. L’opera di un buono o cattivo architetto? Non lo so. So soltanto che la pace, la quiete e la bellezza se ne sono già andate”. Eppure, la casa è la radice dell’idea stessa di architettura, da Vitruvio alla “capanna primitiva” dell’abate Marc-Antoine Laugier, mentre la casa individuale un’icona della storiografia moderna dalle Prairie Houses di Frank Lloyd Wright alle ville di Le Corbusier, di Mies van der Rohe e dello stesso Adolf Loos. Invece, a parte Frank Gerhy, è difficile trovare una casa nel repertorio delle archistar.
Va poi ricordata la casa per artista (in appendice alcuni celebri casi), una specie considerata ideale forse perché sono i poeti, gli scrittori e i musicisti a tramandare la cultura dell’epoca, una ragione che mi hanno fatto scegliere i temi “Casa per Maurizio de Giovanni” e l’esercizio di progettualità guidata “Rifugio a Furore per Giacomo Ricci”.
Benché la casa sia un argomento semplice, è al contempo uno dei compiti più problematici così, consapevole della difficoltà del tema, avevo esplorato le sue potenzialità e/o le sue resistenze, poi riversate nelle revisioni che non hanno intaccato chi è rimasto prigioniero del metodo dei “riferimenti”, mentre sono soddisfatto dei risultati di chi – facendo tesoro dei limiti e della poca forma disponibile – è riuscito a sorprendersi per ciò che ha progettato.
I fini e il luogo della casa per Maurizio de Giovanni sono gli stessi che sostenevano il tema di vent’anni fa per la casa di Umberto Eco che ipotizzava un futuro ormai passato.
Sandro Raffone 10 dicembre 2019

Capitolo “APPUNTI DI UN DESIDERIO” di “Resistenze, frammenti di architettura di pietra, terra, luce e aria”, Clean 2000

CASA PER UMBERTO ECO IN VIA ORAZIO A NAPOLI – TEMA PER IL LABORATORIO DELL’A.A. 1998/199

I rari appezzamenti ancora a verde nella collina di Posillipo sembrano inopportuni residui dell’urbanizzazione che come una ruggine ha saturato la quasi totalità dell’ameno sito.
In via Orazio permane un magnifico suolo, di forma quadrangolare ed in lieve pendenza, inserito fra una coppia di ville dove l’ombra delle arcate registra con forza la luce del Golfo. Quella a destra, con le spalle al mare, sembra sia stata la dimora di Gioacchino Murat.
L’appezzamento recinge un frammento dell’orografia del luogo, la memoria di com’era la collina prima della quasi totale antropizzazione. La vegetazione spontanea completa l’alterità racchiusa nel lotto, peraltro inaccessibile, ma è proprio la sua estraneità alla città a dare un carattere al contenuto del recinto, a testimoniare una nostalgia di ciò che non è più o di ciò che avrebbe potuto essere e non è divenuto: architettura.
L’urbanizzazione della collina è un dato di fatto. Ma è bene almeno riflettere che nel conflitto fra storia e geografia ha vinto la prima; la pressione della storia ha avuto il sopravvento sulle resistenze della topografia perfino dove il costone tufaceo è a picco. Il vero rammarico è che la domanda costruttiva non sia stata capace di utilizzare le circostanze orografiche in valori architettonici. La generale incapacità o indifferenza è denunciata dai pochi interventi che invece hanno saputo assimilare le potenzialità del luogo come villa Oro di Luigi Cosenza, Villa Ferri di Vittorio Amicarelli o villa Crespi di Davide Pacanowski.
Oggi questo suolo, che non è città né vera natura, è solo uno spazio escluso, un avanzo della cementificazione selvaggia dentro cui cresce incolta una vegetazione altrettanto selvaggia.
Escludendo un completamento volumetrico, ambito dagli speculatori, una destinazione pubblica o peggio l’ipocrisia di un giardino, credo che un buon uso di quel suolo sia lasciarlo com’è, messo in cornice come un quadro di Andy Warhol per testimoniare la forma della terra.
La conservazione dell’orografia – una sorta di risarcimento alla natura stravolta dalla superficialità e dall’egoismo – non impedisce la possibilità di ricavare, a meno di lievi variazioni e sotto le curve di livello, una dimora. Un’abitazione speciale per un personaggio speciale che in questo rifugio, che non si mostra ma domina uno scenario straordinario, possa alimentare la cultura ed il pensiero.

Perché cercare in un’architettura sotterranea un tema didattico che apre anche una rischiosa condizione di ricerca? Oltre che per le ragioni in omaggio alla geografia, l’architettura di scavo è un tema che appartiene alla costruzione della città di Napoli, dai miti di Enea e della Sibilla Cumana, alle straordinarie catacombe e fino alle estese cavità che sono il negativo dei volumi edificati in superficie.
Ma c’è un’ulteriore ragione che mi induce a proporre un progetto didattico nel sottosuolo ed è quella di proteggere il tema dalle insidie dell’esibizione della forma.
Nel passato i valori formali facevano riferimento a stili e tipi codificati dall’uso, dalle tradizioni e dai trattati. All’inizio del secolo l’architettura moderna ha introdotto nuove forme e codici risultanti dalle nuove funzioni, dalla tecnica, dalla macchina, dall’astrazione e dall’arte figurativa mentre ora, alla fine del millennio, anche le avanguardie sono divenute parte rilevante del patrimonio storico e del linguaggio. Però i linguaggi moderni sono fragili se usati indiscriminatamente oppure come causa anziché effetto del progetto e rischiano, nel superamento continuo dell’imitazione di se stessi, la dispersione dei significati. Eppure, la forma è divenuta il parametro più immediato per il successo e la divulgazione dell’architettura. In Italia poi il fiorente mercato della pubblicistica documenta opere d’importazione come surrogato dell’architettura che non si costruisce. Le belle immagini su carta patinata favoriscono le imitazioni di forme viste ma non vissute, di forme inutilmente arbitrarie.
Il progetto d’architettura è sempre un’attività altamente arbitraria tuttavia la concatenazione delle scelte deve essere guidata dai giudizi riferiti alle convenienze, alle pertinenze ed alle necessità dell’opera; l’arbitrio dell’architetto non dovrebbe mai essere dettato dal capriccio ma da scelte responsabili. L’arbitrarietà del segno, denunciata da Perrault, fu raccolta da Piranesi per rivendicare non solo la libertà di ampliare i referenti ma anche il diritto di reinventarli. Il grande architetto-incisore ha toccato gli estremi di questa libertà oscillando fra le figure di puri segni dei suoi geroglifici e l’eliminazione di ogni maschera dalle essenziali strutture collocate nello spazio senza limiti delle sue straordinarie “Carceri d’invenzione”. Ma in architettura come in arte l’invenzione non esiste: è sempre una trasformazione di qualcosa che c’è, che si conosce o che si crede di conoscere.
Uno dei problemi dell’Ottocento era quale stile scegliere per edifici privi di storia. Oggi una domanda ricorrente è a quale modello formale riferirsi. La forma dell’architettura è strettamente connessa al suo linguaggio ma questo è troppo importante per essere usato come cosmetico oppure a discapito dell’uso, delle strutture e dello spazio. Credo che l’odierno consumo di forma, benché accettato e diffuso, è sbagliato oltre che pericoloso. Progettare forzando la soluzione nel vasto repertorio delle forme disponibili è sbagliato poiché prima della forma ci si dovrebbe chiedere e comprendere a fondo cosa si deve progettare, poi attivare il come, cioè il processo del progetto che avviene nei limiti di luogo, d’uso e di costo vagliando costantemente nel perché la connessione delle scelte che accompagnano la scoperta della soluzione, quindi della forma, più pertinente al tema.
Cercare nella forma il nuovo per attirare l’attenzione o sbalordire è pericoloso oltre che immorale perché l’architettura dovrebbe essere un servizio d’interesse pubblico e non una vetrina per l’affermazione dell’autore. La sperimentazione formale è rischiosa in architettura: nel termine è contenuta la possibilità che l’esperimento non riesca mentre all’architettura non si può sfuggire e, come ammoniva Adolf Loos “deve piacere a tutti al contrario dell’opera d’arte che non ha bisogno di piacere a nessuno”. Compito dell’architetto non è inventare immagini ma il vero talento può essere espresso nella capacità di individuare i problemi, soppesare le scelte e comporre l’architettura con i pochi, pochissimi elementi noti. Le meravigliose invenzioni nel Partenone di Ictino si misurano sui 17 millimetri dei rigonfiamenti nelle colonne alte 10,432 metri o sulla curvatura di 12,7 centimetri nei fianchi lunghi 72,30 metri. L’architettura è una difficile questione di misura, di giusta misura.

La casa sottoterra potrà facilitare l’esercizio di operare le più convenienti scelte di disposizione, di distribuzione e di qualità dello spazio ma sarà anche un ammortizzatore per le scelte di linguaggio, un solido filtro in cui le costrizioni sono i migliori vincoli per cercare la giusta forma. Essendo poca, la forma esterna sarà preziosa e quindi adatta per caratterizzare un linguaggio discreto ma fortissimo perché silenzioso.
Il progetto dovrà affrontare e risolvere il conflitto instaurato fra la topografia, le necessità organizzative degli interni e le limitazioni imposte alle aperture. Nel processo del progetto sarà privilegiato l’utilizzo coordinato di piante e sezioni mentre i prospetti, compreso quello zenitale di copertura, saranno una conquista di questo conflitto.
Dato fondamentale per indirizzare il processo è focalizzare lo scopo ed il fruitore dell’intervento: nel suolo e soprattutto nel sottosuolo si dovrà articolare uno spazio per abitare, per l’incontro, per studiare, rilassare e caricare l’intelletto.
Questa sorta di officina del pensiero e rifugio dello spirito, una villa analoga ed opposta a quella di Malaparte a Capri, è destinata ad Umberto Eco. Nella villa sotterranea Umberto Eco potrà trovare l’ambiente ideale per scrivere un romanzo incentrato sull’incontro di Giovanbattista Piranesi con Raimondo de Sangro, Duca di Torremaggiore e VII principe di Sansevero, Gran Maestro della Loggia Massonica, alchimista e scienziato, sullo sfondo della Napoli del Settecento e sul confronto fra i termini contrapposti di ragione e sentimento, libertà e norma, natura e storia, arbitrio ed autorità, scienza ed arte, relativo ed assoluto, empirismo e razionalismo, capriccio e regola, dubbio e fede, illuminismo ed esoterismo.
Perché Umberto Eco? Potrei dire perché mi piace. Ma smentirei quanto ho sostenuto finora. Invece ci sono più fondate ragioni per assegnare la casa ad Eco: il semiologo è un investigatore e la risoluzione di un progetto è come un enigma poliziesco in cui partendo dai termini noti si deve risolvere l’incognita del tema; poi c’è il suo “Postille a Il Nome della Rosa” che considero uno dei migliori trattati di composizione architettonica; altre considerazioni sono l’aderenza del suo lavoro di scrittore – che è uno scienziato del linguaggio – con gli intenti architettonici del tema e l’adeguatezza del narratore con lo scopo del romanzo che dovrà scrivere. Infine, ho scelto Umberto Eco per motivi economici. Infatti, l’assegnazione della casa sotterranea in via Orazio ad Eco non è da considerarsi un premio ma la condizione per trarre dall’utente il massimo vantaggio. L’intervento sarà promosso e finanziato dalle Istituzioni perché è considerato un investimento del pensiero. Ma anche un investimento con un ritorno monetario: oltre i dodici milioni di copie tradotte in diciotto lingue, il romanzo sarà portato sugli schermi da Spielberg. Con i diritti su Internet ed i gadget che accompagnano il lancio, l’intero investimento darà il 15% delle royalty alle Istituzioni, l’1,25% all’Università e lo 0,75% a me che ho avuto l’idea.
Sandro Raffone Napoli, 21 gennaio 1999

Oggi compio sessant’anni ed ho trovato un messaggio di U. Eco. Dice che si è licenziato dal DAM di Bologna e si è stabilito a Napoli dove è preside della Facoltà di Architettura. Non gli è stato facile adattarsi ma ora Napoli gli piace; dice che è l’ultima città veramente medioevale. Per questo ha lasciato la casa sotterranea e si è trasferito in un basso del Palazzo Carafa di Montorio, di fronte alla statua del Nilo, dove si accinge a scrivere un nuovo romanzo sugli eventi della presenza alessandrina ed egiziana nella città greco-romana. La casa in via Orazio, mi informa, è divenuta il Centro Internazionale di Ricerca sull’Architettura Ipogea diretto dai miei ex assistenti.
Quanto a me sono diventato ricco. Con tre giovani architetti, studenti del vecchio corso di Laboratorio, mi sono trasferito nell’Africa del Sud Ovest per costruire nel deserto della Namibia la residenza di Wilbur Smith. Lo scrittore rodesiano l’ha voluta sotto la sabbia per difendersi dal clima torrido e per non violare la sacra assenza del territorio dei boscimani.
Sandro Raffone Windhoek, 8 agosto 2006

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